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Parliamo di musica – Stefano Bollani

(Quarta di copertina)

L’idea che per capire la musica si debba per forza possedere un certo bagaglio culturale è sbagliata.

La musica dovrebbe far parte del progresso cognitivo di ognuno di noi. Ti insegnano a disegnare e non a cantare, ti insegnano a leggere e a capire le arti figurative ma non ad ascoltare la musica, ti insegnano a godere del suono della poesia e non del suono di un clarinetto, ti insegnano la storia della cultura del tuo e di altri paesi e non ti parlano mai dell’apporto dato dai musicisti. Giuro che non capisco perché.

Più andiamo avanti e più, con computer e telefonini, preferiamo scriverci credendo di evitare malintesi… quando la solita mitica équipe di scienziati inglesi, che forse esiste solo nella fantasia dei redattori di certi quotidiani, chissà, ci ha fatto sapere che il contenuto delle nostre frasi conta, in caso di comunicazione diretta fra due persone, diciamo un 20 per cento: il resto è linguaggio del corpo, odori, suoni, sguardi, accenti.

Un bambino nei primi anni della sua vita non scrive la propria lingua, la usa. E per scopi ben precisi.

Perché non cominciare suonando, e magari non da soli ma con altri bambini? La musica è condivisione, il suono nasce per comunicare.

La musica new age, il pop della radio, come la telenovela e la fiction giocano a non impegnarti. La TV e internet ci hanno talmente assuefatto all’utilizzo della vista che pensiamo di non percepire nulla se non vediamo. […]

Come dice il pianista Daniel Barenboim in un suo libro, quando attraversiamo la strada la prima cosa che facciamo è guardare, non ci viene in mente di porgere l’orecchio e percepire il suono del motorino.

(ndr cosa che lo schizoide – ma anche più in generale gli introversi – spesso fanno)

(parlando dell’opera lirica)

Il tutto è molto italiano. Si sa che in Italia, se piangi, sei perdonato.

Dimostra un po’ di sensibilità e ti vorremo bene, ti perdoneremo.

[…]

Il brigatista Mario Moretti, quando Sergio Zavoli gli chiese di spiegare gli anni del terrorismo, rispose: «È difficile, in un paese come il nostro, abituato al melodramma, spiegare la tragedia!». Ed è vero.

Esagerava ma non troppo il pianista Misha Alperin, altro umorista raffinato, quella sera in cui mi ha confessato che non ama leggere romanzi perché sono sempre più prevedibili della vita e in buona sostanza perché i libri tendono a dirgli cosa sognare mentre lui vuole decidere da solo i propri sogni.

Sin da bambino pativo il fatto che a un certo punto si dovesse prendere una strada precisa, nella musica come nella vita. Dover essere sempre serio, o essere sempre il simpaticone, o essere sempre il primo della classe, o essere la teppa. Si è molto più variopinti e poliedrici diamine, e sin da piccoli!

Ahimè, dopo che hai fatto il cretino la gente è portata a pensare che tu sia cretino in via definitiva (“Once a cretino, always a cretino”) ed è difficile poi ribaltare la situazione.

Poi c’è il grande rischio di intrappolarsi da soli, di non saper uscire dal registro che “funziona”, di ripetersi senza andare a scandagliare il proprio fondo e vedere se c’è dell’altro da portare in superficie.

Il cantante pop è il primo a trasformarsi in una icona, ancora prima che il pubblico lo decida. Lavora al primo disco e già si tengono riunioni per decidere il look, il tipo di intervista, l’atteggiamento… insomma, in una parola l’immagine.

Poi convive con la tremenda paura che il pubblico lo rinneghi, che non lo riconosca più, che non segua le sue svolte, le sue evoluzioni, il suo cammino.

(sul pubblico)

Vuole semplicità nei codici:
Io sono seduto qui in platea, tu sei lì sul palco.
Tu esprimi delle cose, io ti applaudo.
Ti applaudo se le condivido.
Se sei un virtuoso.
O se non ho voglia di pensarci troppo su.

Nella sala da concerto classica accade il contrario. Si entra e ci danno il programma, si sa già quello che suoneranno, si dà per scontato che faranno il possibile per attenersi alle indicazioni del compositore, vivo morto o moribondo che sia.

Abbiamo già la trama in pugno. Sappiamo già se si tratta di una commedia o di un dramma. Dunque siamo pronti a emozionarci in un punto preciso e rischiamo di passare la serata ad aspettarlo (pensiamo alle arie nelle opere… quante lunghissime ’Tosche’ per potere alfine sentire ’E lucevan le stelle’ che, Puccini cattivone e crudele, ci scodella solo alla fine).

Ma soprattutto ho passato le notti a rivedere tutto Gene Kelly su YouTube. Perché la sua leggerezza era l’effetto che cercavo. Volevo dare l’impressione di non fare alcuno sforzo, in un brano che invece ne richiede, soprattutto dal punto di vista tecnico.

Gene Kelly balla e ride ma soprattutto fa cose difficilissime non con l’aria guascona di chi te le fa pesare ma con l’incanto di chi rende quei movimenti, così studiati al dettaglio, semplici e necessari.

È una sensazione che avevo già da bambino vedendolo ballare: finiva il film e pensavo di poterlo fare anch’io. Uscivo dal cinema e mi sentivo pure io un acrobata.

Guardate i ragazzi dello spettacolo ’Stomp’ a Broadway o a Londra, che in un’ora e quaranta giocano a rendere percussivo qualsiasi elemento a loro disposizione, da una scopa a una scatola di fiammiferi, da un accendino a un lavabo. Hanno provato ore e ore e ore, è evidente, eppure riescono a farcelo dimenticare, a farlo sembrare naturale. Godono loro stessi per primi delle possibilità del loro corpo, delle loro mani, dei loro piedi, del loro talento. E senza fare pesare nulla.

(Direct link to the video[🡕]) Stomp Live - Part 1 - Brooms

Ah, questi grandi compositori del passato… sembrano tutti uguali, perché li abbiamo messi tutti in fila, tutti senza braccia e senza gambe, menomati eternamente in una serie di busti con tanto di parrucche. Tutti di una certa età, tutti seri, compresi nel loro ruolo, facendo la Storia!

Mai giovani, mai sfiorati dai dubbi, mai in mutamento, dunque mai VIVI, mai PRESENTI. Immortalati, appunto, in un attimo che li rende monumenti, dunque lontani da noi, che siamo persone che passano il martedì a sconfessare quello che hanno deciso e dichiarato il lunedì, a cercare continuamente di fare bilanci delle nostre vite dimenticandoci di viverle.

Invece erano tutti molto diversi fra loro, questi grandi compositori.

(Concert champêtre di Francis Poulenc)

Tranne che poi esiste un’incisione diretta dallo stesso Poulenc e nel punto dove ha scritto “rallentando” invece, che fa, proprio lui? Esatto: accelera!

Lì nascono certe discussioni!

“Bisogna dare retta all’incisione… l’autore è lì al pianoforte… saprà bene lui come la voleva, no?”

“Per me, invece, lui ha accelerato perché il giorno dell’incisione gli girava così, magari era emozionato.”

“Se lo ha scritto, è perché ci ha ragionato… diamo retta a quello che ha scritto.”

“Forse non lo ha scritto lui ma quello che ha curato l’edizione dello spartito.”

“Forse l’incisione è vecchia e il disco ha un problema e in quel punto gira più veloce” (il passo successivo prevede anche interventi degli alieni o delle lobby degli stampatori di spartiti e ve lo risparmio).

Si può andare avanti a lungo, e generalmente si smette per sfinimento.

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La musica non esiste senza l’empatia

Il poeta brasiliano Vinícius de Moraes diceva che la vita è l’arte dell’incontro. Solo che nella vita mica ti scegli una a una le persone con cui avrai a che fare.

Nella musica la situazione si fa interessante proprio quando suoni con chi vuoi davvero.

Tra improvvisatori si entra in comunicazione totale per due ore. Due ore totalizzanti, poi magari non si va neanche a cena insieme. Oppure si suona tre giorni di fila intensamente e poi capita che non ci si riveda per anni.

Sul palco si cerca di dare e prendere il meglio da chi lo divide con noi. Ci lampeggiano davanti le passioni comuni, le direzioni verso cui possiamo andare insieme naturalmente. Per intuito, fiutando l’aria, annusando gli altri. Cercando sempre il legamento, il dialogo. Non solo per il nostro bene, ma anche per il bene del pubblico e, in definitiva, per il bene della musica.

Bella vita, lì, sul palco, quando tutti salgono con la voglia di creare qualcosa di inedito insieme, qualcosa che sia più della semplice somma degli elementi in gioco. Certo che esiste l’altra faccia della medaglia. Sali sul palco con un altro e nasce la competizione.

La storia del jazz è strapiena di aneddoti in cui i musicisti, di fronte a un novellino, cercano di metterlo subito in difficoltà per vedere se può cavarsela, se può fare parte del gruppo, se è “uno di loro”.

Lee Konitz – forse inconsapevolmente, forse no – una sera mica mi ha detto il titolo del pezzo che voleva attaccare, lo ha sussurrato al bassista, poi ha iniziato. E si registrava un disco dal vivo, in quel caso. Ci sono un po’ di chorus senza pianoforte perché il pianista appunto sta cercando di capire di che brano si tratti (Konitz non suona neppure la melodia del brano, comincia direttamente a improvvisare sugli accordi della canzone).

Una volta, in Indonesia, ho partecipato a una jam session e ho visto Nico Gori, il clarinettista che suona con me nel gruppo I Visionari, perdere la pazienza. C’era questo sassofonista francese, indossava un cappellino, era partito con un “solo”, sguardo basso, suonava bene. Nico sente il suono, l’inizio del suono, si volta e mi fa. «Questo mi sta antipatico».

Brandisce il clarinetto, lo monta come fosse un’arma, sale sul palco e quando arriva il suo turno parte con un “solo”; lo prende alla larghissima, lento, fa un cenno al batterista di lasciarlo solo con il basso, e comincia a costruire il “solo”, e il francese, a un certo punto, prende e se ne va…

Quando alla fine il pubblico era in delirio, il francese era giù uscito, aveva capito che la cosa era rivolta a lui: una questione di maschi alfa. Una cosa tra loro due. Tipica del jazz alla vecchia maniera.

Accadeva così a Kansas City e in altre città americane negli anni Trenta e Quaranta, dove a tarda notte, nelle sale da ballo e nei jazz club si consumavano battaglie tra gente come Lester Young, Coleman Hawkins, Ben Webster. Nel film Bird il giovane Charlie Parker sale sul palco dopo aver fatto la fila insieme ad altri aspiranti e finalmente suona nella jam session. E il batterista smonta uno dei piatti, lo tira e glielo fa atterrare accanto, tra le risate generali. Quanta crudeltà.

Ma la jam session è una gara, vai a farti notare, a fare capire che sei della famiglia, che conosci i codici.

Quella sera, in Indonesia, Nico poi è tornato al tavolo e abbiamo ripreso a parlare da dove ci eravamo interrotti. Non c’era un’esigenza musicale per quello che era successo sul palco; c’era l’esigenza di mettere quello lì al proprio posto! Gli stava antipatico. Punto. Così, in modo vago. È una lotta sotterranea e ogni tanto l’ego emerge e passa alle vie di fatto.

Aveva anche le sue belle ragioni Nico, vi dirò. L’atteggiamento del francese era un po’ di chi passava di lì e, guardando il mondo dall’alto, faceva cadere la sua prosopopea addosso agli astanti.

Nel jazz si scelgono i musicisti per le ragioni più diverse: amicizia, affinità artistica, interesse, casualità. A me interessano la persona e la sua creatività: li scelgo così, non per il timbro che hanno sullo strumento. Suono con Antonello Salis perché è Antonello Salis ed è geniale: se invece della fisarmonica suonasse l’ocarina, per me sarebbe lo stesso. Così come Mirko Guerrini: decide lui che sax suonare, l’importante è che sia lui. Ovvio, ci sono eccezioni: quando ho fatto un lavoro su Frank Zappa volevo a tutti i costi il vibrafono, e ho cercato il vibrafonista più adatto.

Alla fine, conta la musica.

Fra jazzisti non si parla così tanto di musica come si potrebbe supporre. Ancora meno in termini tecnici. Ne facciamo – credo – una questione di magia. Da bambino immaginavo lunghe discussioni e invece no, credo si tratti quasi di una legge non scritta e non detta secondo la quale se la musica ha funzionato non c’è niente di cui parlare e in caso inverso non c’è bisogno di entrare nei dettagli di quello che non ci ha convinto. Semplicemente, non era serata e avremo modo di rifarci.

I musicisti fuori dal palco si aprono poco. Sul palco ci siamo divertiti, ci siamo detti un sacco di cose senza parlare. Suonando. Abbiamo un canale in più, siamo dei privilegiati. Se incontri musicisti aperti, salti le frasi fatte. Entri subito a un altro livello di comunicazione.

I duetti con altri pianisti, per esempio: mi è capitato con Martial Solal, francese, un uomo che ha superato gli ottant’anni, tecnica mostruosa, una specie di Art Tatum contemporaneo: non fa mai quello che ti aspetti, sta sempre creando, salta completamente dei passaggi che tu nella tua testa utilizzi per ragionare, lo devi seguire. Persona di grande humour, un continuo ironizzare con la musica e scartare di lato: fa una frase molto melodica seguita subito da uno sberleffo. Poi dopo, a cena, parli di cose pratiche, inutili. Ti sei già detto tutto sul palco.

Con Chick Corea la cosa è diversa: sul palco con lui sto rischiando di più, perché se lo ascolto troppo mi viene da imitarlo, sento i suoi dischi da quando sono bambino.

Lui è un uomo di settant’anni che tuttora parla molto di musica, di dischi: ascolta quello che fai, rielabora, ci ragiona molto e ne parla anche a tavola ben volentieri, soprattutto può passare molto tempo a sviscerare i suoi grandi amori, cioè i musicisti che ama.

Questo genere di figure che io chiamerei “generatrici di empatia” sono fondamentali per un musicista. Uno così è anche Manfred Eicher, il produttore dell’etichetta tedesca ECM. Quando sei in sala di incisione e lui è dietro il vetro mette una certa soggezione. Per lui hanno inciso alcuni dei miei idoli, come Chick Corea, ma prima ancora Keith Jarrett; io ho cominciato a incidere per lui nei dischi di Enrico Rava.

Eicher cerca di tirare fuori il meglio dal musicista. Cerca di tirare fuori la cosa che puoi fare in quel momento e che non ti aspettavi di poter fare. Per questo è un grande produttore. Vuole che tu per primo faccia qualcosa che a casa non avresti fatto. E come ci riesce? Spostando l’attenzione su un dettaglio, piccoli consigli: è facile buttarsi giù quando dopo due ore che suoni non hai ancora tirato fuori niente che ti piace. Se vede che ti accanisci su un pezzo ti dice di lasciar stare. Nel jazz non si fanno troppe “riprese” dello stesso brano, si perde in freschezza. Eicher ha così tanto carisma che i musicisti si lasciano condizionare e la musica prende una direzione, che poi è quella che caratterizza i dischi ECM. C’è una linea sotterranea che unisce la musica che produce, dal jazz norvegese di Jan Garbarek all’Argentina di Dino Saluzzi o il Brasile di Egberto Gismonti.

(Direct link to the video[🡕]) Jan Garbarek Group, Bergen, 2002 - 9. Voy cantando

L’incontro nella musica è fondamentale quanto delicato. Quando suono in ambito classico cerco di adeguarmi alla situazione che trovo; talvolta sento di essere osservato con sguardi da entomologo. A volte c’è l’orchestrale che viene subito a stringermi la mano e mi dice che a lui piace il jazz e si annoia mortalmente a suonare in orchestra. Altre volte trovi quelli che non ti guardano neanche e la cosa resta su un piano formale.

[…]

Io prediligo le sorprese.

E i musicisti che mi sorprendono sono quelli più lontani da me, dalla mia formazione, come Rava, che è autodidatta e, quando improvvisa su una struttura, ragiona in maniera diversa rispetto a me, che ho imparato da bravo bambino quale scala funziona sul tale accordo, quale accordo funziona sulla tal melodia eccetera.

Quando suonammo insieme a Pat Metheny rimasi sorpreso dal fatto che non leggesse molto volentieri la musica: preferiva imparare i brani a orecchio, come Salis d’altronde, il quale poi se li ricorda per anni e non so assolutamente come faccia!

In un vecchio e favoloso numero televisivo della TV inglese anni Sessanta, Dudley Moore fa il rocker che canta una canzoncina in slang americano, ricca di allusioni sessuali e in definitiva soprattutto di rime buttate là perché suonino bene e accompagnino la danza (Groovin’ the bag, Mama).

Peter Cook, nella parte del giornalista molto british, si siede con lui per analizzare il testo, alla ricerca del significato, per poterlo poi spiegare agli ascoltatori, come se questo tipo di analisi potesse aiutare il pubblico inglese a comprendere meglio lo spirito del brano. Ne viene fuori una gag comica formidabile.

Ndr Anche più divertente è quest’altro sketch, anche se non c’entra con la musica:

(Direct link to the video[🡕]) Peter Cook & Dudley Moore - The one-legged Tarzan sketch - 1989

Johann Sebastian Bach non metteva neanche le mani sul clavicembalo per comporre! Anzi, disprezzava chi lo faceva, li chiamava «i cavalieri della tastiera». Per gente come Bach la composizione era un esercizio essenzialmente logico, una chiarezza della mente.

Prima degli anni Cinquanta del secolo scorso, mica esisteva la categoria dei “giovani”. Che è stata inventata – e resiste tuttora – per fini consumistici.

[…]

La ribellione di un surrealista era contro un padre immaginario, contro un Nietzsche, mentre i “giovani” di venti anni dopo si ribellano molto più semplicemente contro il vero padre che non li fa uscire per andare a ballare, una cosa, converrete, ben più spicciola.

(in Brasile)

Il fulcro del racconto è questo. A un certo punto il ragazzo mi guarda e mi dice: «Per me tutto è iniziato a quindici anni come un gioco (e anche come sfogo legittimo, vista la situazione di degrado in cui sei cresciuto, aggiungerei io, ma zitto). Ora arriva questo che mi dicono essere un signore importante e ci spiega che è Arte. Boh. Io so solo che, se comincio a pensare che è Arte, non mi diverto più, dunque continuo a pensare che sto facendo un gioco».

Voi, da europei che devono tenere un concerto lì il giorno dopo e che arrivate col pianoforte a coda, il gruppo, l’impianto e l’ufficio stampa di Umbria Jazz, la BBC al seguito, l’Hotel a Copacabana, come vi sareste sentiti?

Il minimo – ed è veramente il minimo – che posso fare a questo punto è tenere a mente la frase e il modo in cui mi è stata affidata da quel ragazzo. E tentare di applicarla al mio modo di vivere la musica. Ora che l’ho anche scritta, la rileggo e mi suona sempre più saggia.

Un guru degli anni Settanta come Tom Robbins diceva giustamente: «Il solo motivo per cui Dio ci tollera è il nostro talento per le stronzate».

È lì che lo sorprendiamo. Non quando ci occupiamo di religione, di scienza, di ragionamenti. Quando ci dedichiamo alle cose inutili. Quando fondiamo un fronte per la liberazione dei nani da giardino. Quando passiamo le notti a soffiare in un tubo o a pestare su una tastiera cercando di usare l’insieme dei nostri ego per ritrovare un’armonia perduta, o meglio per inventarne una nuova, fosse anche solo per qualche attimo di felicità (quello in cui i jazzisti alzano la testa nello stesso momento e si sorridono).

(Direct link to the video[🡕]) «Michel Petrucciani - Live At The Village Vanguard (1985)» – (6:57, Michel Petrucciani e Palle Danielsson durante il brano "Regina")

(sul pop)

E soprattutto parlano d’amore. E di lì non si scappa. Ed è il motivo per cui la musica strumentale è tanto più libera.

Non è tenuta a rifarsi al solito antico tema della persona amata, desiderata, spesso e volentieri non raggiungibile.

Tema antico ma ancora una volta non così globale come immaginiamo.

L’ “amor de lonh” (“l’amore da lontano”) che cantavano i trovatori provenzali è poi passato nel Romanticismo e ancora ci attanaglia; ma in buona parte del mondo, fuori da questa piccola Europa che consideriamo il centro di tutto, raramente si apriva bocca per cantare i propri personalissimi turbamenti per una bella figliola o un bel figliolo. In Africa i cori tradizionali non lo fanno quasi mai. E non creano nuove canzoni per vendere dischi.