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La Cupola

Il cielo: avrebbe dovuto essere azzurro. È un errore, uno sbaglio. Che senso ha costruire questa natura se poi il cielo è rosso? Che senso ha questa cupola se sento i rumori della città? Penetrano nel terreno e viaggiano fino ad arrivare da me. Non ci sono barriere che tengano. Sento le vibrazioni—quasi impercettibili, ma le sento. Non c’è niente di vero qui dentro, non c’è niente di vero là fuori. È una prigione in ogni tempo e in ogni dove. Quale maledettissima realtà virtuale?! Cosa mai ci avremmo inserito dentro? Quali scenari? Un cielo rosso o un cielo azzurro? Rumori o il silenzio? Cosa cambia? Sarebbe stata comunque una realtà, un esistere, non sarebbe cambiato niente. Chissà cosa avevano in mente; forse nulla. Non ci avevano nemmeno pensato, il loro progetto era la base, la culla, la sorgente, l’origine da cui poi sarebbe nato il sogno. Il loro vero obiettivo non era il sogno, era questo punto d’inizio. A loro bastava riuscire a creare la struttura, il programma, ciò che li interessava era dare la possibilità di creare. Non volevano creare, volevano concedere la possibilità di farlo ad altri. Quegli altri potevano essere anche loro stessi, ma era secondario. Loro volevano creare una possibilità, una speranza per l’umanità, per se stessi. Quello era il mio desiderio, a quel tempo io avevo infatti un desiderio. Si manifestava sui riflessi della Macchina Madre, ed era grande, grandissimo. Era una speranza. Ecco, avere un desiderio è avere una speranza. Io voglio ancora avere una speranza?

L’uscita della cupola poco dopo di me. Alle mie spalle, una natura creata con tanta passione, una speranza. Fuori, costruzioni verticali: un granello tra i granelli di metropoli imponenti isolate in un deserto angoscioso senza vita; anch’esse sono un gesto di speranza. Forse lo è ogni gesto. Che cosa speravano, di vivere per sempre, di vivere con qualcuno, di vivere in pace, di morire, di andare su un altro pianeta, su un luogo nuovo?

Adesso già sono in un luogo nuovo.

Vorrei entrare in un altro cervello, balzare da una mente all’altra. Così, immergendomi in coscienze diverse, in persone dai differenti ricordi, dalle differenti idee, forse avverrebbe una fusione, forse non ci sarebbe la falsa compagnia di un dialogo, ci sarebbe una vera unione tra due coscienze. No, anche così facendo, resterei sempre io. Resterei la stessa cosa immateriale, astratta, che salta da un cervello all’altro, che parla con una coscienza e poi con un’altra, che sperimenta alcuni ricordi e poi altri. Ma sarei sempre io, la mia anima, la coscienza, l’autocoscienza, la coscienza delle percezioni psicosensoriali e del pensiero, l’essenza, l’esistenza, l’essere, ciò che sente e poi scopre e, dunque, sa di essere; ciò che è senza motivo, ma che è in ogni caso. E mi chiedo perché esisto solo io, e perché proprio io. Aaron ad esempio non c’entra. Lui non è la coscienza. Lui non ce l’ha. Dice di averla, come lo dicono tutti. Si credono esseri con un’anima. Ma quello è il cervello. Sono io, invece, che percepisco e che ragiono in questo istante. Sono Io. E non capisco perché mi trovo imprigionato in questo corpo.

È una maledizione? Rido. Sono perché sono, non perché sono stato creato. Ma sono debole, perché sono racchiuso dentro il tempo, dentro un vortice di eventi. Non posso liberarmi di un ticchettio fatale, astratto, immateriale, che mi permea. Potrebbe essere proprio parte di me stesso, di questo mio Io magnifico. Quindi è impossibile da distruggere. Devo solo aspettare che la Morte mi liberi da questo contenitore umano perché io possa librarmi nel Tutto.

Muschio. Ancora non esco da qui. Che cosa mi trattiene, perché sono ancora dentro questo posto finto? È come se sapessi che qui c’è qualcosa d’importante, e io debba cercarla. Ma so che non c’è. E allora perché non me ne voglio andare? Non è questo il nascondiglio della mia salvezza. Ci narrarono d’altre soluzioni, ci ingannarono come s’inganna il bimbo con la fiaba.

Se quella utopia esistesse, chissà dove sarebbe, che forma avrebbe, quale luogo etereo aspetta quieto. La Terra è enorme, ma tutta uguale. Il tempo è breve e infimo. E allora è impossibile individuare un punto. La grandezza degli elementi, l’infinità dello spazio, le vaste terre senza sentieri non hanno mai impedito all’uomo di raggiungere i suoi obiettivi. Seguiva le stelle, la ragione, l’istinto, un sogno, o la pazzia. Con un mezzo o con l’altro arrivava sempre da qualche parte. E se non arrivava, moriva combattendo, convinto che la meta esistesse. Una certezza che veniva prima d’ogni altra cosa: più sicuro dell’obiettivo che della sua stessa esistenza. Sì, si può individuare un punto nello spazio. Una nave tra le stelle può sembrare perduta, e invece segue un’orbita. A ogni velocità un’altitudine, a ogni spinta una variazione nella traiettoria. Numeri che scorrono, frequenze che raccontano di vettori e di distanze relative: la nave è individuabile, miracolosamente raggiungibile. L’uomo è riuscito a estrarre frammenti logici dal Caos e se ne è servito per andare oltre l’orizzonte, oltre il cielo, verso i suoi sogni e le sue speranze. Verso un desiderio che lamento di non possedere. E così invidio quella voglia insistente che pregna il cuore della razza umana, quella madre invisibile che spinge l’altalena appena torna indietro, quel fuoco che arde dall’inizio dei tempi. L’energia, il Sole, la stella, il motivo, il perché, lo scopo, la sublime finalità: è lei, la neghentropia inarrestabile. Io invece sono disturbato da ciò che chiamavo “la radiazione di fondo”, che mi tormenta la testa, mi porta racconti di quest’energia infinita, l’energia dell’Universo. Ne sono penetrato, perché sono vivo e poggio i piedi su questa terra, e nonostante ciò mi pare di esserne privo. Si lascia contemplare ma non posso utilizzarla, e così diventa una tortura, diventa il fondo su cui si muove il moribondo e ridicolo teatro del vago esistere.

Raramente, finisce per piacermi. Come per Leopardi che a un certo punto gli è persino dolce, non importa che la cupola sia un tentativo poco riuscito, non importa che la città sia decadente, o che il deserto sia un luogo deprimente: sempre, in quei posti, contemplo la presenza dell’energia. E talvolta ne resto meravigliato.

Ma perlopiù, fa male. È un tormento che si rivela nei dettagli, nei fastidiosi ruvidi riflessi: è il lamento di quei frammenti logici che dopo essere stati utilizzati ripiombano nel Caos, cioè da dove l’uomo li estrasse. È il lamento del corpo che non può diventare quell’energia, non può unirsi con questa essenza infinita, libera, calda ed eterna. È la mancanza di uno scopo che non muoia al cospetto della Vanità delle cose, è la mancanza di un Tutto, pur trovandomi immerso in questo Tutto.

Troppi scervellamenti, troppi dubbi: rimpiango le discussioni con Aaron, la pura constatazione ontologica sicura, schietta e inconsuetamente virile.

Esco dalla cupola, con le mani sempre in tasca, dove le ho sempre avute, perché questo luogo non cambierà niente in me. La mia salvezza non è qui, non è nella metropoli, non è nel deserto, non è nello spazio. La mia salvezza non c’è. La nave non è individuabile perché i numeri scorrono imprecisi e creano paradossali risultati. I vettori si contraggono, si contorcono.