Connessione
A volte ci si accorge che si sta deglutendo la saliva. Si ferma il proprio respiro e lo si fa ricominciare. Si avverte lo scorrere veloce del sangue a ogni pulsare del cuore. Ci si ricorda quanto sia complesso il nostro corpo: innumerevoli le carni, innumerevoli i pensieri.
Ho le mani ghiacciate. Il freddo entra nei tessuti, crudi ed estranei, osceni e viscidi. Vorrei uscire. Una smorfia sul mio volto, disappunto e disgusto verso tutto questo ammasso di costruzioni precise ma indefinite, questo scroccare d’ossa, la gelida morbida pelle, lo strano mescolarsi di cose ignote che si avvertono all’interno dell’organismo. Vorrei davvero uscire. Sento dei denti impiantati sulla carne, lunghi fili violentemente infilati sulla pelle, mille oggetti molli racchiusi in un contenitore terrificante. La lingua si sente intrappolata, si muove, cerca una via di fuga; vuole vedere la luce, tira e tira sempre più forte, ma è incollata a qualcosa. No, è un tutt’uno. E allora si sradica, strappa tutto quanto può, esce fuori e con lei la carne lacerata. Brandelli cadono a terra, una terra virtuale: attorno a questo involucro c’è la loro “libertà”. Quante volte li ho sentiti usare questo termine… Per ora è una libertà senza forma e senza gravità, un ammasso di elementi astratti, un vuoto su cui galleggia un corpo che si sta disintegrando. Le ossa escono, il sangue illumina con il suo fuoco, crea bolle che fluttuano. Una mutazione completa, un impasto impreciso. La testa esplode; sento una ventata d’aria fresca: sono tornato.
Si affievolisce lo schema temporaneo, la finzione realistica. Si sciolgono le pieghe dello spaziotempo, tutto si stende e si stabilizza: rinasco, affranto.
Ogni connessione alla Macchina Madre è un inganno malvagio, è una promessa che poi viene strappata. È la prova che non possiamo accontentarci. Sono ancora dentro il mio corpo adulto, imprigionato e afflitto. Maledizione, perché? Perché è andata così male?
L’esperimento è durato pochissimo. Mi sono accorto che stavo deglutendo, ho percepito il mio corpo e di conseguenza ho capito che non era il mio. Sono riuscito contro la mia volontà a ingannare i fili, i collegamenti, il metallo impiantato nella mia testa. Dopo così poco tempo sono di nuovo qui, a soffrire il freddo e il dolore degli impianti che forzano sul cranio.
Esco dal fluido smeraldino.
Immediata la chiamata di Aaron. Apro il display: – Sei vivo? -
Rispondo scocciato e chiudo. Apprezzo le sue preoccupazioni, ma non ha ancora capito quanto male faccia rinascere, soprattutto al fisico. Deve imparare a darmi tempo: ci vuole almeno un’ora per riacquistare tutte le funzionalità del proprio corpo. Non dovrei avvisarlo ogni volta che vengo qui, ma è il mio migliore amico.
I minuti trascorrono lentamente, camici bianchi mi medicano e la voglia di andarmene via si fa sempre più forte. Non c’è variazione in questi test. Non ho firmato tutte quelle carte per vivere questa routine di fallimenti ogni settimana. Non ho firmato per soffrire senza scopo, ho dato il mio corpo sperando, mostrando la mia totale approvazione e dedizione al progetto. Ma di questa realtà virtuale, di questa promessa enorme, io non vedo nemmeno una briciola. Ogni connessione mi mostra niente di più che una copia di me stesso circondata dal vuoto.
Si apre l’enorme portone, tra frequenze stridule e raggi di sole. Sono libero, per qualche giorno.
Cammino mani in tasca verso la solita meta, apprezzando le ombre dei grattacieli che giocano a nascondino col sole. Freddo, caldo, freddo, caldo, poi la galleria, buio. All’uscita, come un’esplosione, le luci del settore dove vivo. Decadenza, ricostruzione, decadenza e più avanti ancora ricostruzione. Non c’è linearità né coerenza strutturale in questa città. Lontano si intravedono i fumi dell’industria senza limiti.