Sciacalli
La via verso casa è lunga, ma non posso permettermi uno Slyder. Il direttore ha comunque detto con convinzione che camminare mi fa bene e aiuta a riprendere familiarità con il mio vero corpo.
Un’altra galleria. Una volta le macerie si scavalcavano, ora che in determinati punti sono diventate enormi, si forano. Ma dentro, in queste gallerie, le luci delle insegne dei negozi danzano e i diversi colori si fondono tra di loro nella mia testa, facendomi dimenticare che cosa c’è sopra. La gente ride uscendo dal negozietto, contenta di quello che ha in mano. Una bambina cammina fissando il suo pupazzo, che tiene davanti a sé con le braccia diritte, rigide. È guidata dalla madre che la tiene per il cappuccio. Lei non è solamente distratta come gli altri: non ha proprio la minima idea che sopra ci siano i resti di grattacieli venuti prima. La invidio, anche perché non deve preoccuparsi che la struttura regga. Esco. Le luci rosse e verdi spariscono dietro di me e dritto nei miei occhi rifulge un arancione. Il sole sta scomparendo mentre riesco a intravedere la torre residenziale. Prima di svoltare nella via che mi precluderà qualsiasi possibilità di vedere la luce, mi fermo e guardo ancora un attimo il tramonto. O meglio, la luce che si infila tra una costruzione verticale e l’altra. L’orizzonte lo vedo solo quelle poche volte che mi allontano nei settori più periferici. Accade nei giorni in cui ho grande bisogno di riflettere.
L’ascensore è veloce e mi porta subito alla meta. Se c’è qualcosa che funziona sempre, in questo universo ridotto alla rovina, sono gli ascensori. Non so come sia possibile, tutto si guasta tranne questi complessi meccanismi, sia quelli nuovi che quelli con un’elettronica datata. Macchine che hanno lavorato un secolo, su e giù, su e giù, senza sosta.
La scheda scorre sul lettore. Rimango pietrificato dal disordine: ieri la mia stanza non sembrava messa così male. Subito l’idea è di mettermi a pulire, ma soprattutto di buttare via un po’ di cianfrusaglie. Solo che di tutto questo cumulo di porcherie non so mai cosa tenere e cosa no. Ciò che mi crea più problemi è un gioco, un piccolo display con cui passavo le giornate da piccolo. Sono certo che in giro ne ho altri, questo potrei buttarlo tranquillamente. Ma niente da fare, rimango a fissarlo. La relazione affettiva con un pezzo di plastica… Eppure ciò che ora sono è ciò che sarò anche domani; non posso dimenticarmi di quello che imparai, non posso perdere a terra pezzi di storia. Se anche gettassi via ogni cosa attorno a me, se cancellassi l’intera stanza rimanendo al centro di quattro mura grigie, nulla in me cambierebbe. Posso vivere in mezzo al vuoto più totale ma il mio pensiero non può rimuovere ciò da cui esso stesso costantemente nasce.
Mi siedo al computer. La macchina che dà accesso al mio mondo, al mio rifugio: la rete, o meglio, ciò che sta sotto la rete, quello che gli altri calpestano senza accorgersene; logica modulare che contrasta con quella merda inconcepibile che è la mia coscienza. Nessun dubbio, solo sistemi che funzionano o non funzionano; o è zero o è uno. Avverto una solitudine cupa, ma la estendo all’infuori di me; nel buio della mia stanza il monitor illumina il mio volto e mi investe di compagnia. Dietro di me la luce svanisce e non illumina nessun altro. Fuori c’è un rumore sordo, qui c’è il silenzio, il silenzio teorico dei bit muti.
Spesso e inevitabilmente paragono gli Sciacalli e quello che faccio in questo mondo di bit. All’inizio si chiamavano così tutti i banditi del deserto, fino a che si cominciarono a fare le dovute distinzioni e il termine guadagnò la maiuscola. Sempre alla ricerca di prede, di soldi e di cibo, hanno terrorizzato per decenni. Ecco, di cibo ne ho già abbastanza. I movimenti di questa società che sta dall’altra parte dell’oceano invece mi interessano: decine e decine di news che la rendono molto allettante. Vediamo la lista dei server.
Tutti abbastanza lontano per non dover aspettarmi conseguenze. Era nata una proposta che intendeva dividere la rete in sezioni geografiche indipendenti e dall’accesso rigido proprio per evitare danni alle società . Ma le proteste mondiali immediate fecero morire l’idea nel giro di poco tempo. E quindi ho ancora possibilità di farmi i soldi. Scelgo l’obiettivo, lo comunico a uno dei miei zombie, e rimango in ascolto. Ecco i byte scorrere; dopo qualche filtro, ecco quello che cerco: vedo l’informazione che viene inviata spoglia al server, ma sarebbe stato troppo facile… C’è infatti un hash di controllo, e non si può tornare indietro, non c’è decodifica. Il modo con cui varia rispetto ai documenti fake dello zombie, però, mi ricorda qualcosa. Con poca sorpresa, l’exploit di una settimana fa funziona anche qui; anche loro si appoggiano sullo stesso sistema.
Quelle intuizioni che vengono solo da quelle menti che praticamente vivono nella rete. Così ben compatibili che non fa piacere sapere che c’è un limite fisico dopo il quale non è possibile penetrare più a fondo nel flusso di dati. Chi meglio di costui potrebbe sognare una totale immersione in quel mondo già così strettamente a sé legato? Si manifesta sempre più spesso il desiderio di una totale metamorfosi, di una condizione indissolubile dal flusso. Una fusione perfetta che non si vorrebbe più abbandonare. Disintegrazione dei ricordi non necessari, dissolvenza della percezione materiale. Unione assoluta con l’impulso, procedurale assimilazione dell’essere, trasmutazione da corpo a segnale. Lì, in un mondo apparentemente schematico e virtuale, ma in realtà alloggiato sopra il caos primario e metafisico, si spalancherebbero le porte dell’essenza.
Ogni volta che ci rifletto, davanti ai miei occhi appare enorme e luminosa la struttura metallica della Macchina Madre. Gli esperimenti a cui mi sottopongo ormai da un anno sono la sola possibilità che questo sogno si realizzi. Tutto dipende dalla mia resistenza, perché il corpo ha cominciato a far male, ma non posso mollare adesso, è troppo presto. Quasi dimentico la mia missione: riprendo a leggere, e cerco di riprodurre lo stesso programma, per riuscire a comunicare includendo l’esploit. Questione di un’ora. Compilo. Simulo. Invio. Accettato. Ecco la mia richiesta che appare vicino ai nomi dei dipendenti. Un paio di minuti al trasferimento, e poi il mio conto sarà pieno quel che basta per non far decollare elicotteri e assicurarmi la sopravvivenza per qualche altro mese.
Misera soddisfazione, roba fin troppo semplice, la rete è sempre meno controllata. Ma in qualche modo dovevo recuperare il negativo. Lentamente scompaiono i brividi. Ormai è fatta, non mi hanno beccato. L’atmosfera va svanendo, e io ritorno come prima, uomo ormai perduto, senza intenzioni, ma pervaso da una noia superba, non capricciosa, ma costante, impregnata nel sistema nervoso. La solitudine diventa orgoglio. Le mie mani fioche sono meravigliose mentre picchiano sui tasti. C’è energia che mi invade. Una sorta di potere statico, contemplabile. Adoro il momento e il buio che lo avvolge.