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X & Y

In realtà sei niente. Sei vuoto tra il vuoto. Sei un inganno. Ma è un inganno che ha sempre funzionato, dall’inizio dei tempi. Il vostro è un potere immenso. I nostri occhi trasformano materia in idillio trascendente. Luci di speranza, di natura nobile e antica, disperse tra palchi urbani. Calore contrapposto alle statiche congelate mura della città, sporche di depravazione, sofferenti gli effetti del tempo. C’è la vita in voi, nei vostri movimenti incoscienti. Il rumore della gente entra in un cono d’aria e viene risucchiato via; le vostre parole riempiono l’aria e volteggiano, invece, sopra tutti, sopra tutto.

È nel mirino del malato che cerca quel poco di luce possibile; è il vuoto crudo e oggettivo delle cose che risalta inesorabilmente e incondizionatamente il vostro splendore esaltante. Per altri il bagliore è innocenza, proseguimento della specie, speranza nel domani. Io vedo solo la bellezza fine a sé stessa, incontestabile, fisica.

Fratelli adulti, la vostra vecchia mano rugosa, magari sporca del lavoro, non può fingere d’essere perfetta in ogni suo centimetro, dalle unghie al polso. Ripugna sé stessa. Ci sentiamo forti, le gambe lunghe ci tengono in piedi, fieri, e i nostri peli ci proteggono. A cosa serve tutta questa forza, tutta questa materia di carne e membra? Riesce forse a non far piangere?

Il nostro corpo chiede compassione, consolazione, distrazione, chiede di ammalarsi per poi morire. Il nostro corpo è una prigione.

Mio inganno, come siedono le tue gambe sulla sedia. Come mi guardi incuriosita, aspettando che dica qualcosa.

Ma subito volti il capo. Pesci che sguazzano, i tuoi occhi. Fino al soffitto, fin sotto il divano.

Scivoli, superba.

Me ne starei fermo qui per sempre. Ma tu non hai pazienza, hai bisogno di muoverti, di saltare da un posto all’altro, di scoprire ogni angolo di questa terra tutta uguale. Cosa ti muove, cos’è quest’energia così feroce? Hai un sole dentro al petto.

Dove ti porto? L’angoscia scende veloce e puntuale. Come devo agire, dove andiamo, cara, carissima? Ho paura, sai, se poi non ti piace dove ti porto? Come può piacerti, io non conosco bei posti; chissà cosa mangi, chissà quanto dormi, chissà come vesti. Ti porterò a correre, perché certamente ti piace correre. A chi non piace, veloci per i campi, per l’erba alta se non per i sentieri. Fino a sudare, così poi un sorso d’acqua è come oro nel Far West. Mi ricordo benissimo come a noi ragazzini piaceva bere dopo che il pallone ti strappava via le forze. Taniche nei nostri addomi, e poi, una volta ricaricati, via di nuovo, correre, correre!

Ti suonerei qualcosa, se avessi qui una chitarra.

Pensieri interrotti all’improvviso da un grido acutissimo. –Calma, che gridi?–, ti dico.

– Qua non si respira. Andiamo fuori.

Certo, dentro è tutto chiuso, le mura separano la carne dai fiori. Gli odori stazionano, fuori invece danzano. Solo una coscienza rassegnata può permettersi di arrestarsi nel bel mezzo della vita; la tua mente è giovane, c’è ancora nebbia: certo, i colori sono vivissimi, c’è addirittura profondo dettaglio, e un brivido mi assale pensandoci; eppure tutto è a suo modo sfocato, i cinque sensi, sostanzialmente, ancora ti ingannano. È bello vedere come non pensi a niente, mentre a me pare esca il fumo dalle orecchie.

– Fuori dove?

– Fuori! Io vado. Ciao.

Pare quasi che la porta si apra da sola, a tuo comando. Eppure devi aver usato la maniglia come tutti i comuni mortali.

Carino quel “ciao” sincero, deciso e intraprendente. Bellissimi i quattro secondi in cui da seduta in una stanza sei sparita nel nulla. Deprimente invece il mio corpo che si alza per recuperare lo svantaggio e seguire la scia.

La maniglia incontra un’altra mano, meno giovane.

Inizio ad abituarmi all’aria e al sole che piove proiettili sul mio corpo. I profumi non sono così piacevoli come quando li incontro alla finestra, perché non si crea quel contrasto pazzesco che li fa arrivare come l’effetto di una droga; pazienza. Zampetti velocemente; devo starti dietro, perché siccome sono niente, ancora meno di te, non posso lasciarti.

Oh, cielo, mi rendo conto che sei un appiglio. Potrei avvicinarmi, analizzarti e scoprire che anche tu non puoi darmi niente, oramai ho capito come funziona, purtroppo: quando ti avvicini all’obiettivo, all’oggetto del tuo desiderio, la sua luce dovrebbe risultare più forte, e invece così non è perché i tuoi occhi si adattano alla luce, la pupilla si restringe e ti consente di vedere chiaramente ogni linea, ogni maledettissimo dettaglio materiale. Puoi cogliere ogni sfumatura in un bianco sempre più denso e buio. Non c’è luce abbagliante, solo chiarezza, tanta cruda chiarezza. E quindi risulta naturale, per un’anima sognatrice, fare un passo indietro, voler vedere di nuovo la luce. Ammirare il superbo: annusare gli odori dalla finestra, anziché da fuori; vedere te che cammini sull’erba come una regina, lontana, senza toccarti; navigare su un’apparente finzione, dacché la realtà è relativa all’osservatore: esiste, è lei, davanti a me. Esiste lei come esisterà la sua vecchiaia, come esistono i muri di quest’albergo. Ma esiste anche l’inconsistenza logica di quest’albergo quando mi sarò allontanato abbastanza. Nessun uomo vive le stesse cose, e nessun uomo ha ragione o torto.

Mentre divago, il tuo passo si è fatto più veloce: non mi lasci tempo per pensare, ma io devo pensare, non posso farne a meno. E allora cosa devo fare? Dimmi, piccola, cosa devo fare?

–Cosa devo fare?– ti chiedo per davvero.

– Andiamo là, che c’è un sentiero.

Risposta pronta, reale, perché tu ti muovi sulla terra com’è giusto che sia mentre io sono diviso tra un mondo materiale e uno metafisico. Ma quant’è bello il tuo mondo, oggi che c’è il sole. Ti rincorro: –Eccomi.

–Vediamo dove va.– Continui a camminare, molto velocemente, non so se corri o cammini, forse entrambe le cose, alternando. Gli alberi sono indubbiamente alti, quasi mi sento umiliato perché anche se lo so che non pensano, è difficile crederci veramente; esseri così imponenti e anziani non potrebbero che essere più saggi di me, così, per un attimo, mi mettono soggezione.

Ho la febbre e sto pensando di dirtelo. Ah, no, è l’effetto del sole. E allora non dico nulla, tanto ormai c’è ombra su questo sentiero che pare non finisca mai e non porti a nulla. Gli alberi sono sempre uguali. Ecco, dei fiori; li hai guardati un secondo soltanto, possibile? Io mi soffermo, invece; ma devo subito seguirti, mica sparirai per il bosco? Immagino quante volte morirebbe il mio cuore cercandoti in un bosco buio con le lacrime agli occhi. Perché penso sempre a questo? Non mi basta la morte mia, il mio pensiero vuole pure la tua. Non posso pensare al sole o ai fiori? No, non riesco a pensare ad altro in questo momento che non sia il morire del tuo corpo puro in un sentiero di un bosco scuro e silenzioso. Eppure sei viva, davanti a me, ansiosa di vedere dove ti porta la terra battuta, dove ti porta la vita; sarà l’effetto di questi grandi anziani che vegliano i lati della stradina, ma pare che io voglia che quell’evento sia tragico per me e per te, così da far nascere un triste film; ti porto tra le braccia e piango di te ormai senza vita, mentre il bosco è sempre più buio e umido e appaiono i titoli di coda.

Mi lamento del mio cervello. Forse, capito che un amore non può davvero consolare, voglio abbracciare il dolore fino in fondo. Forse ho bisogno del tragico materiale per giustificare il dolore mentale. All’improvviso, di nuovo il sole.

Già, perché nonostante i miei sogni a occhi aperti, sto camminando in una bella giornata, con te viva e gioiosa. Continuiamo, senza sosta. Finito. Siamo arrivati. Un cimitero.

Il tuo volto si trasforma. Sbuffi, con espressione arrabbiata. Io incredulo, ma apatico. Torni subito indietro, e io, come un pupazzo, senza poter dire nulla, subito mi accingo a seguirti. Se mi avessi lasciato prendere fiato magari avrei potuto spiegarti che dispiaceva anche a me. Mi sarebbe piaciuto che da dietro gli alberi fosse spuntato qualcosa di bello, d’interessante per un’anima curiosa. Purtroppo camminiamo per niente. Penso a questa frase: “camminiamo per niente.” La espando, la allargo, la contemplo. Finché l’albergo torna a esistere, nella nostra visuale soggettiva di queste coordinate.

–Ho sete.– Così dici, allungando le vocali.

–Quanto fiato hai in gola?–, chiedo sedendomi su una panchina.

Insisti, quasi mi mostri la gola disidratata. Così entriamo, e chiediamo un bicchiere.

Sorridi, il tramonto ti colora il viso.

Osservo l’arancio nel cielo, annuso il profumo dei tuoi capelli mescolato a quello degli alberi.

Sento che siamo alla fine. So che questo panorama è diverso, un simbolo. Sono mesi che le mie ossa pesano troppo, che tremano per ogni cosa che fai o dici. Inizio ad avere paura della tua consapevolezza, della persona che ho plasmato, del tuo corpo che continua a crescere, come ribellandosi.

–Vado–, mi dici.

– Sì, lo so.

L’aria è ancora fresca e pura mentre ti alzi e mi lasci per sempre.

Quanto ti amo in questo istante.

Mille aghi sulla mia bocca. Potrei dirti qualcosa, potrei convincerti a restare, eppure mi sento sollevato. Sono indubbiamente stanco, lo sono sempre stato. Stanco della vita, di ciò che devo fare per stare a galla. Arrabbiato di non poter essere una delle tante formiche. Condannato a vivere in un mondo troppo vero, troppo palpabile, sporco.

Ho avuto la mia vita, il mio modo di sopravvivere, di camminare nonostante il vuoto delle cose, delle strade, degli edifici, dei corpi. E ora non ho più niente, sei andata via, ti ho lasciata andare via.

Si vede che avevo voglia di morire.