Cosa vuol dire – e chiudo con questa notazione un po’ pedagogica – cosa vuol dire “anticipare la morte”? Cioè essere persuasi che si deve morire; qual è il vantaggio della dimensione tragica?, che consiste nel fatto che devi morire e non c’è nulla che ti attende nell’aldilà ? Che operi una relativizzazione delle problematiche dell’aldiquà . Non ti affanni come un disperato, non litighi come un pazzo. Non ti suicidi per le preoccupazioni del mondo, perché sei mortale; sei mortale, e quando devi uscir di carriera non ti disperi, non muori due anni dopo che vai in pensione: perché la morte è comunque lì ad attenderti, non è che finisce la vita, tu che l’hai fatta coincidere con la tua vita lavorativa e fuori da quella non sai più chi sei. Perché ormai le nostre identità sono assegnate dai nostri ruoli sociali, no? Sappiamo chi siamo solo perché gli altri ci riconoscono in un ruolo, fuori di lì non sappiamo più chi siamo; e infatti tutti gli attori e le attrici fanno delle vite tragiche, perché tragiche? Ma tragiche per non aver anticipato la morte, per non averla assunta come una condizione… come uno spessore dell’anima, ecco – usiamo pure questa parola anche se si riferisce a un’entità che non esiste, appunto l’anima.
Ma teniamola presente questa anticipazione, perché relativizzando le cose smettiamo quelle drammaticità tipiche invece di coloro che credono nell’immortalità dell’anima e quindi ritengono che questa vita abbia una sua importanza, il loro Io diventa egemone e quel che dipende dall’Io decide della vita e della morte, finisce un amore e si uccidono le donne perché è finito tutto, no, no, no: fermati. Se interiorizzi la morte in anticipo allora relativizzi tutte le cose, e tutte le cose non hanno quello spessore che non è da tragedia ma da disperazione. Ma i disperati chi sono? Quelli che hanno avuto speranza. Perché chi non ha avuto speranza non si dispera mai.
Umberto Galimberti, Teatro Paisiello di Ruffano (Lecce)