Umberto Galimberti – Il successo della filosofia
Ogni tanto mi viene il sospetto che la psicoterapia, la cura con la parola, sia nata perché la filosofia ha disertato se stessa e, da pratica di vita, è diventata il mestiere dell’insegnamento.
Ora questo mestiere si sta esaurendo, eppure le iscrizioni degli studenti alle varie facoltà di filosofia non diminuiscono, nonostante la disapprovazione dei genitori (“non ti dà un mestiere”) e i continui inviti che da ogni parte giungono a “professionalizzare” la scuola, a “specializzarla” per i mestieri. Poi è sufficiente che al Teatro Parenti di Milano si discuta di filosofia o a Modena si faccia addirittura un Festival della filosofia e si riempiono le sale e le piazze. Ma perché? Qual è la domanda a cui la filosofia ha smesso di dare una risposta?
La domanda, inutile girarci intorno, è la domanda di senso da parte di esistenze che nascono, crescono, lavorano, producono, consumano, invecchiano, muoiono, senza riuscire a rintracciare nella propria biografia una traccia di sé in cui riconoscersi e a cui dare espressione. Di ciò ognuno di noi soffre, anzi forse questa è l’essenza del dolore che deriva dal fatto che, forniti per natura di una coscienza, viviamo vite irriflesse, a cui non prestiamo la minima attenzione. E allora o ottundiamo la coscienza con il lavoro e l’evasione o la lasciamo nel dolore di una domanda senza risposta.
Nel primo caso nessuno si occupa di noi dal momento che per primi abbiamo noi deciso di non occuparci di noi stessi. Un po’ di lavoro, un po’ di consumo, un po’ di famiglia, un po’ di sesso, un po’ di calcio, un po’ di tv e la vita passa senza troppe domande. Nel secondo caso, quando la domanda di senso non ci abbandona e si ripropone, non necessariamente nei momenti cruciali della vita, ma quando andiamo al lavoro, quando facciamo acquisti, quando torniamo in famiglia, quando facciamo l’amore, quando andiamo allo stadio o guardiamo un po’ di tv, allora veniamo subito rubricati nella patologia.
A questo punto o si va in farmacia a comprare qualche antidepressivo, su indicazione medica naturalmente, o si va in psicoterapia. In questo caso o per adattare se stessi al mondo in cui viviamo, dal momento che non si può cambiare il mondo, o per cercare se stessi e cosa nella nostra vita emotiva è causa di dolore.
A mio parere appartengono alle psicoterapie dell’adattamento il “cognitivismo” che invita ad aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie dissonanze cognitive in modo da armonizzarle al mondo in cui ci si trova a vivere, e il “comportamentismo” che invita ad adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato e coltivati come tratto originale della propria identità , purché non abbiano ricadute pubbliche. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’autenticità , l’essere se stesso, il conoscere se stesso, che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell’anima, diventa qualcosa di patologico, come può esserlo l’esser centrati su di sé (self-centered), la scarsa capacità di adattamento (poor adaptation), il complesso di inferiorità (inferiority complex). Quest’ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che “essere se stesso” e non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologia.
E in tutto ciò c’è anche del vero, nel senso che sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto psicologie del conformismo, assumono come ideale di salute proprio quell’esser conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia. Dal canto loro i singoli individui, interiorizzando i modelli indicati dal cognitivismo e dal comportamentismo, respingono qualsiasi processo individuativo che risulti non funzionale al mondo in cui si vive.
Alla ricerca di sé, del proprio sé profondo, si dedica invece la psicoanalisi per capire quanti imbrogli (razionalizzazioni) abbiamo fatto con noi stessi nel tentativo di comporre i conflitti che nascono tra i nostri irrinunciabili desideri e le richieste che ci vengono dall’esterno a cui non possiamo sottrarci. Qui la razionalità deve confrontarsi con le regioni oscure di noi stessi per scoprire ciò che è “difensivo” rispetto a qualcosa che non si vuole o non si può accettare di sé, ciò che è “compensativo” di nostre debolezze che mai abbiamo voluto prendere in considerazione, e infine ciò che è veramente “espressivo” di noi stessi e che ancora non abbiamo avuto il coraggio di esprimere.
Tutte le psicoterapie, se ben condotte, funzionano, sia per chi non vuol saper nulla di sé, ma vuole semplicemente trovare un buon adattamento nel mondo, sia per chi vuol sapere qualcosa di sé indipendentemente dai problemi di adattamento. Ma per chi, adattato al mondo, e con una discreta consapevolezza di sé ancora non reperisce un senso della propria esistenza, e quindi viene a contatto non con questo o quel dolore, ma con l’essenza del dolore, per costui non c’è rimedio in farmacia e forse neppure in psicoterapia. Per queste persone, che a guardar bene sono la quasi totalità dell’umano, non restano che due vie: la religione o la filosofia.
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