La fatica di essere se stessi. Depressione e società – Alain Ehrenberg
All’origine del trauma psichico: gli incidenti ferroviari. Non sono, questi, incidenti come gli altri, perché il treno, alla fine del XIX secolo, è ormai diventato il simbolo della modernità e una figura – la «bête humaine» di Zola – capace di influenzare potentemente a livello immaginario sia la vita materiale sia la vita spirituale. «Il treno ha categorizzato l’idea stessa di incidente nel suo significato moderno». In effetti, per la prima volta nella storia dell’uomo, non è la natura (o la guerra) a causare una catastrofe, bensì la tecnica e l’industria. Con un conseguente problema assicurativo inerente alla riparazione e alla responsabilità dei danni prodotti, che non sono solo danni materiali. Si fa luce, al di là dei corpi dilaniati, un altro fenomeno: persone rimaste indenni lamentano dolori al capo e alla schiena, o subiscono paralisi parziali e amnesie. Manifestazioni, comunque, non strettamente connesse con le eventuali lesioni fisiche. Un medico londinese, in uno dei primi studi pubblicati sull’argomento, nel 1866, conia il termine di railway spine per designare lo «shock spinale» che è all’origine dei dolori al capo. Un altro medico londinese sottolinea, più o meno nel medesimo periodo, che tali disturbi sono paragonabili a quelli dell’isteria e sono provocati da idee fisse, quantunque sprovviste dei connotati della follia.
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In un secondo ordine di problemi trovano spazio le difficoltà legate alla nozione di «costituzione». Il temperamento o il carattere del malato sembrano, a volte, fatti apposta per togliergli il gusto della vita. «Modificare una predisposizione inesorabile all’instabilità umorale o psicologica… è pura illusione per coloro che credono nella totale irriducibilità del fattore costituzionale e assegnano ai comportamenti morbosi la rigidità di una lesione istologica». Che fare contro la natura? Non molto, seppure l’analisi psicologica offra gli strumenti per esaminare le «costituzioni» troppo fragili e rafforzarle. La medicina, in realtà, si fa impressionare dalla resistenza della natura. E quando si dà troppo rilievo al fattore costituzionale, se ne dà molto meno alle speranze di guarigione. I medici sanno diagnosticare benissimo le nevrosi d’angoscia nelle quali dominano quelle crisi temporanee che fanno poi vivere i malati nel timore perenne di un loro ritorno. Ma non sanno poi formulare una terapia, perché «il fondo di predisposizione, che in parte sfugge alla presa medica, ha la meglio sul complesso di cause occasionali su cui sarebbe più facile intervenire».
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Il marasma psichico deve essere compreso e trattato a due livelli: agendo sul nucleo delle funzioni inferiori, vale a dire sulla timia, e inglobando, nel trattamento, le funzioni superiori, vale a dire la storia individuale del paziente. Il soggetto malato è, potremmo dire, un soggetto affettivo: la vita emotiva del paziente è il punto d’incontro della sua patologia timica col suo giudizio deviato.
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Nel 1985, si è ormai rassegnati al fatto che «la depressione rimane… un concetto dai contorni incerti. L’unica certezza è che è quella cosa “che si guarisce con gli antidepressivi”»: una bella dimostrazione della «preponderanza dell’empirismo nel delineare la strategia terapeutica della depressione». Nel 1996, un’analoga constatazione: «Il concetto di depressione resta fluido». Con la postilla: «Resta valida la formula secondo cui sappiamo curarla sempre meglio ma sappiamo sempre meno che cosa stiamo curando». Ma come è possibile curare meglio se non si sa che cosa si sta curando? In base a quali criteri si constata un’avvenuta guarigione? Incertezza ed eterogeneità: a quarant’anni dalla scoperta degli antidepressivi, la psichiatria fatica a elaborare una teoria della depressione.
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Distinguendo due grandi tipi di depressioni, «nevrotica» (o semplice) e «endogena», gli autori precisano: «La maggiore difficoltà diagnostica s’incontra quando la depressione endogena assume l’aspetto di una depressione semplice».
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Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio desiderio non era di essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da offrire?…
L’inquietudine cominciava a mangiarmi dentro.
VIDIADHAR s. NAIPAUL, Alla curva del fiume, 1979.
La liberazione sessuale ha sostituito la preoccupazione di sbagliare con la preoccupazione di essere normali.
AUGUSTIN JEANNEAU, Les risques d’une époque ou le narcissisme du dehors, 1986.
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Perché spingere i pazienti a confrontarsi coi loro conflitti quando c’è l’assistenza medica a compensare il loro senso d’insufficienza? […] E sulla scia di tutto questo ci si incomincia a porre domande sullo statuto terapeutico dei farmaci psicotropi: queste persone, le droghiamo o le curiamo? La divaricazione tra i due modelli di malattia, combinata col ridimensionamento delle funzioni regolatrici dell’interdetto, porta a interrogarsi sui confini tra normale e patologico. Il continente del permesso cede il passo al continente del possibile.
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Sul versante sociale, si afferma la possibilità di costruirsi proprie regole; sul versante clinico, si affermano dispositivi che aiutano non tanto a restituire alla persona l’equilibrio perduto quanto a disinibirla e permetterle di moltiplicare le proprie possibilità.
Secondo Rieff, la lezione trasmessaci dalla nuova stagione terapeutica è la dichiarata volontà collettiva di «non pagare gli alti costi personali imposti dalla nostra organizzazione sociale». Non pagare? La tanto vantata vittoria dell’interiorità si traduce piuttosto in un mutamento del nostro modo di esprimere le inquietudini intime. Le attuali patologie mentali, caratterizzate dall’assenza di conflitto intrapsichico e dal dominio, invece, di un allarmante sentimento di perdita del proprio valore, suscitano una preoccupazione di cui non c’è traccia nella Francia degli anni ’60. Disistima di sé, complesso d’inferiorità: non è qualcosa di molto somigliante al deficit? Se il conflitto è legato al senso di colpa, il deficit è piuttosto connesso al narcisismo. Ecco la terribile lezione che la depressione sta per infliggere all’uomo che si crede il legislatore di se stesso.
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Oltre alla malinconia, due altre situazioni possono presentarsi. Nella prima, la tristezza e il dolore morale sono sintomi nevrotici allo stesso titolo di un’ossessione o di una paralisi isterica. Nella seconda, più difficilmente classificabile in termini psicoanalitici, la tristezza e il dolore morale non sono più sintomi, bensì un sistema patologico caratterizzato dalla perdita oggettuale e difficilmente riconducibile alla nozione di interdetto. In questo caso, i conflitti sono preedipici. Il che significa che i pazienti sono ancorati a uno stadio anteriore a quello della identificazione di sé attraverso le immagini dei genitori, immagini che sono il primo oggetto a cadere sotto gli occhi del bambino. Il malato è rimasto in uno stadio fusionale con la madre. Se la nevrosi è una patologia dell’ identificazione, il caso-limite, o borderline, il caso del soggetto che non ha potuto sviluppare le sue normali relazioni oggettuali, è una patologia dell’identità. In altre parole, il soggetto incontra enormi difficoltà a identificarsi. È, potremmo dire, l’impotente sovrano di se stesso – donde, probabilmente, il suo «delirio d’inferiorità».
La depressione non è dunque un sintomo nevrotico, e non ha nulla a che fare con la struttura della personalità nevrotica. Gli psicoanalisti la chiamano «personalità depressiva», una personalità, scrive Haynal, che «sembra incapace di sganciarsi dalla problematica della perdita, mentre le diverse nevrosi si dimostrano capaci di utilizzare specifici mezzi di difesa per tenere a bada gli scompensi interiori che ne derivano… Nei nevrotici, lo stato depressivo resta il segnale di una perdita… mentre le strutture depressive vere e proprie cronicizzano il problema della perdita facendone qualcosa di irrimediabile, inscindibile dalla sensazione di essere dei perdenti, gente delusa». Il caso-limite non è dunque una forma vaga e indeterminata, è una struttura allo stesso titolo della nevrosi, della psicosi e della perversione. La grande differenza tra una nevrosi a manifestazione depressiva e tale sistema patologico sta nel fatto che, nel primo caso, la persona riesce a elaborare meccanismi di difesa stabili, mentre, nel secondo, la persona vive una condizione di perenne insicurezza identitaria, che si risolve in una depressione a tendenza cronica.
La psicoanalisi incontra, in questo caso, una depressione che non è malinconica e contro la quale il modello di cura dimostratosi efficace per la nevrosi si rivela del tutto inefficace. Questo tipo di pazienti è diventato oggetto di studio per la psicoanalisi anglo-sassone più o meno intorno agli anni ’30, e poi in America intorno agli anni ’50-60. In psichiatria, la sua apparizione risale alla fine del XIX secolo, al momento in cui si delinea la frattura tra psicosi e nevrosi: chi è affetto dalla malattia denuncia sì disturbi costituzionali del carattere, ma non per questo sembra destinato a subire l’implacabile destino che conduce alla demenza. La psichiatria francese del XX secolo conosce bene questa malattia: Henri Claude la definisce «schizomania», Eugène Minkovski «schizofrenia» – priva però del carattere di dissociazione identitaria proprio della schizofrenia –,Henri Ey «schizonevrosi». Chi ne è affetto vive in uno stato di permanente squilibrio psichico, e il suo profilo patologico si può complessivamente ascrivere al registro «narcisistico».
Il narcisismo non è quel liberatorio amore di sé che è uno degli incentivi alla gioia di vivere, ma è piuttosto il fatto di restare prigionieri di un’immagine talmente ideale di sé da sentirsene da ultimo paralizzati, col bisogno di essere rassicurati dagli altri circa la propria identità e con un effetto di dipendenza psicologica che le terapie di gruppo possono in effetti compensare. Gli psicoanalisti danno un nome a quest’ideale paralizzante: «ideale dell’Io». Una definizione che ha subito variazioni nel pensiero di Freud, ma che possiamo schematicamente associare al narcisismo, così come il Superio va associato all’interdetto: il senso d’inferiorità e d’impotenza sta al primo come il senso di colpa sta al secondo. E in effetti, se il Superio invita a non fare, l’ideale dell’Io, al contrario, spinge a fare.
Nelle patologie narcisistiche si produce un sovrainvestimento smisurato nei confronti dell’Io, che rende praticamente insopportabile qualunque frustrazione.
Il malato non ottiene mai l’appagamento delle proprie pulsioni, si sente vuoto e reagisce ricorrendo ad atteggiamenti aggressivi e bruscamente compulsivi o passaggi all’atto. Se la nevrosi è caratterizzata dal conflitto psichico, il caso-limite non perviene neppure al conflitto: è il vuoto. Il paziente che ne è affetto pone problemi particolari in sede di cura, poiché incontra difficoltà non solo con i propri conflitti, ma, in pari misura, col transfert che dovrebbe stabilire con la persona dell’analista, transfert impedito dal fatto che non sono giunti a maturazione nella sua prima infanzia i processi di identificazione. E in assenza di transfert, come si sa, una cura non può sortire esiti positivi.
[…] La psicoanalisi deve sempre più misurarsi con casi che tradizionalmente non rientravano nella sua sfera d’indagine, casi «in cui il senso di vuoto e di assenza […] sono particolarmente acuti».
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Per il problema di nostra pertinenza, il punto nevralgico dei dibattiti nosologici è il seguente: la nevrosi è conseguenza di un conflitto che ci colpevolizza (anche quando appaiono prevalenti i sintomi depressivi), mentre la depressione è avvertita come un deficit di cui proviamo vergogna. Il narcisismo rimescola le carte dell’interdetto: la personalità nevrotica s’incardina su una patologia della legge, la personalità depressiva su una patologia dell’insufficienza (in assenza di un Superio ben strutturato, essa soffre ben poco di conflitti). «Mentre i soggetti padroni di sé, – scrive Freud, – sono più facilmente esposti alla nevrosi, quelli poco padroni di sé sono esposti alla malinconia». Il depresso è calato in una logica in cui domina il senso d’inferiorità, laddove il nevrotico è coinvolto in una dinamica trasgressiva – ed entrambi vorrebbero essere, ricordiamolo parafrasando Freud, più nobili di quanto sia loro costituzionalmente permesso. La sparizione della forza regolatrice dell’interdetto e della camicia (di forza) dell’uniformità spalanca la via alla depressione? La personalità depressiva resta bloccata in permanenza a uno stadio adolescenziale, senza che possa mai pervenire a uno stadio adulto di sostanziale accettazione delle delusioni che costituiscono il prezzo di ogni esistenza. Ne deriva un perenne senso di fragilità, precarietà, instabilità[…]
È l’insufficienza, dunque, a connotare l’Io dei depressi che sottostimano il valore delle proprie esperienze: «La sensazione di non essere forti come si vorrebbe si esprime spesso in termini di ‘fatica’, in osmosi con la sensazione di essere meno motivati di quanto si desidererebbe». Ecco spiegato il motivo per cui questo tipo di depressione si manifesta non attraverso il senso di colpa bensì attraverso il senso di vergogna. Essa «è l’affezione per eccellenza del registro narcisistico… Di più, implica che il soggetto si viva in veste di responsabile… come se, tale quale un dio, pensasse di essersi creato da sé. Il depresso prova sovente vergogna, in quanto, nella sua fondamentale megalomania, non può ammettere le proprie insufficienze; non può ammettere di sentirsi limitato dalla realtà, e in particolare dai vincoli impostigli dalla sua storia personale e dalle sue origini familiari». La colpa è in rapporto con la legge, la vergogna è legata al «profilo sociale». Il successo delle terapie di gruppo si fonda quindi su un processo di «disinvestimento della vergogna». Infatti, quando i riferimenti generali non sono più la regola, quando la legge impersonale non conta più, il solo mezzo per vedere consolidate le proprie scelte va cercato negli altri, e questa ricerca talvolta patetica dell’altro può, nei casi estremi, trasformarsi in dipendenza, in bisogno insaziabile.
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L’inclinazione all’uso di droghe appare, agli occhi degli psicoanalisti, come una scelta analoga a quella delle terapie di gruppo: un sistema di difesa contro la depressione. «La strada che porta dalla depressione alle differenti forme di tossicomania è sempre più affollata», nota Haynal nel suo rapporto sulla depressione. Il depresso, infatti, non regge alla frustrazione. L’alcolismo e le tossicomanie da stupefacenti o da farmaci sono forme di compensazione e possono dunque essere valutabili alla stregua di autoterapia della depressione.
Il pieno di additivi appare come l’altra faccia del vuoto depressivo.
[…]
La patologia si maschera spesso sotto un’apparenza di piena socializzazione, completa di successi professionali e familiari. La personalità può assumere i tratti di un «falso self», di un «come se» (as if). E sono i comportamenti additivi (ndr droghe) a esprimere le contraddizioni di questo tipo di individualità compromessa, vale a dire «un’opposizione tra l’idea inflazionistica che i pazienti hanno di se stessi – eccessivo autoriferimento e costante bisogno di ammirazione – e la loro dipendenza anomala».
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«Il soggetto non si fabbrica un sintomo, come nella nevrosi, né si modella un delirio, come nella psicosi (il che presuppone già un grado elevato di mentalizzazione), bensì agisce il conflitto» attraverso comportamenti come le assuefazioni, le pulsioni suicide, i passaggi all’atto. Tutti espedienti per colmare il vuoto depressivo, garantendogli un margine di compensazione.
[…]
L’implosione depressiva e l’esplosione additiva sono ormai un solo groviglio: il vuoto-impotenza e il vuoto-compulsione sono le due facce della stessa medaglia. Nel caso della depressione non è la tristezza a dominare la scena bensì l’impotenza – la difficoltà ad agire –, unita all’incapacità di reggere le frustrazioni (capacità di scegliere non vuol forse dire capacità di rinunciare?), un’incapacità che configura quel nuovo volto della depressione che è la dipendenza – l’azione sconnessa prodotta dall’assenza di autocontrollo.
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Nella psicoanalisi, soprattutto francese, la depressione si presenta come un crollo simbolico: la difficoltà a fare esperienza dei conflitti inceppa i meccanismi di identificazione indispensabili per strutturare un’identità capace di convivere coi conflitti stessi. Il tipo di disperazione cambia col cambiare del tipo di speranza. L’angoscia dell’essere se stessi si trasforma nella fatica dell’essere se stessi. Ed è questa la forma che assume il vincolo interiore, mentre si va disegnando una nuova stagione della persona.
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In effetti, almeno dopo i primi anni ’60, parecchie ricerche fanno notare che molti pazienti lamentano dolori diversi, privi di un sostrato organico: è la depressione mascherata. I cambiamenti nella sintomatologia interessano una vasta gamma di sintomi somatici: dai mal di testa ai problemi cardiovascolari ai disturbi gastrointestinali.
[…] «enormi conseguenze a livello pratico, soprattutto per i non psichiatri», dato che le manifestazioni somatiche della depressione sono di un’estrema varietà (stitichezza, palpitazioni, caduta dei capelli, freddolosità, ecc.), il che rende la patologia ancora più ingannevole di quanto si immaginasse.
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(sul DSM-III)
La coniugazione del deficit col conflitto consentiva allo psicotropo di essere unicamente un farmaco. Ma ora la loro scissione fa sorgere la domanda: droga o farmaco? «Sovente il depresso non deve più mettersi all’affannosa ricerca della droga: provvedono i suoi medici a fare di lui un intossicato ‘passivo’. È proprio indispensabile? Ed è un progresso terapeutico? Domande legittime, se si pensa che in questo modo si soffoca la vera personalità del paziente e la si proietta in un isolamento che la taglia fuori da quei vincoli affettivi che rendono possibile l’approccio psicologico».
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La depressione non è uno stato soggettivo, è uno stile d’azione.
DANIEL WIDLÒCHER, L’échelle de ralentissement dépressif: fondements théoriques et premiers résultats, 1980.
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Ecco la seconda innovazione di questo decennio, il secondo vettore dell’individualità di fine secolo: l’azione individuale.
Ai vangeli dell’«espansione» e della «liberazione» personali si sovrappongono le tavole dell’iniziativa individuale. La questione dell’identità e quella dell’azione si intrecciano a vicenda. Sul versante normativo è l’iniziativa individuale a sposarsi alla liberazione psichica; sul versante patologico, è la “panne” nell’avvio dell’azione a combinarsi con l’insicurezza identitaria. […] Anche il pensiero psichiatrico parla di panne nel momento in cui individua nel disturbo di fondo della depressione un’origine psicomotoria, che si sostituisce a un disturbo dell’umore. Sgarrare rispetto alla norma non significa tanto essere disobbedienti quanto essere incapaci di agire: si configura un nuovo concetto di individualità.
[…]
L’ultimo capitolo dimostra come la depressione possa facilmente trasformarsi in una patologia identitaria cronica. È sufficiente che il territorio nevrotico, coi suoi disturbi di lunga durata della personalità, sprofondi nel continente depressivo. Tra il disturbo d’umore che si ha (nel corso di un episodio depressivo) e la persona disturbata che si è, la distinzione perde di spessore. E la cronicità mette in crisi l’idea di guarigione. Prende forma una figura di portata generale: il valido invalido. Nella quale noi non vediamo tanto un’ulteriore prova della anche troppo pubblicizzata crisi del soggetto quanto uno spostamento dell’esperienza della soggettività, una riorganizzazione dei rapporti tra il privato e il pubblico, là dove si giocano gli attuali destini dell’interiorità.
Le risposte offerte alla crisi dell’idea di guarigione ci dicono che oggi non si tratta tanto di guarire da qualcosa, quanto piuttosto di essere assistiti e modificati con una relativa continuità, sia in sede farmacologica, sia in sede terapeutica, sia in sede sociopolitica.
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«Il depresso, – scrivono gli esperti, – è molto più vecchio della sua età». I suoi disturbi digestivi, genitourinari e cardiovascolari sono tre volte superiori, le malattie endocrine, osteoarticolari e tumorali due volte superiori, ecc.
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[…] una riflessione pratica sul tipo di self richiesto dal «capitalismo hi-tech di oggi»: «Fiducia in se stessi, duttilità, rapidità, energia… si valutano a peso d’oro». Diciamo, più prudentemente, che queste qualità consentono di rimanere in corsa. Il prodotto si è fatto la reputazione di migliorare l’umore e di agevolare l’azione, ma anche di trasformare in senso favorevole la personalità di soggetti non «veramente» depressi. I pazienti descritti da Kramer «danno garanzie» grazie al Prozac.
[…] «Non si può circoscrivere il dibattito al solo mondo medico, – scrive «L’Encéphale» nel 1994, – non dimentichiamolo. I pazienti provengono dal mondo del lavoro e le loro esigenze sono pertanto scandite da tempi e obblighi esterni al mondo medico: non soddisfarle significherebbe esporli a difficoltà socio-professionali con possibili complicanze depressive».
[…] Jonathan Cole o Donald Klein, ad esempio, ritengono che molti pazienti curati col Prozac attendano invano i miracolosi effetti del prodotto e che la sua presunta efficacia corrisponda soltanto a un wishful thinking. Un’indagine sociologica condotta su un campione di pazienti in cura antidepressiva dimostra che l’efficacia del Prozac è assai variabile e che, tutto sommato, il rischio di fallimento è tutt’altro che raro. Gli ISRS sono esattamente come gli altri antidepressivi: a efficacia variabile.
[…]
L’antidepressivo ideale è il moderno discendente di quelle antiche mitologie, il nuovo mago che ci illude sull’efficacia taumaturgica dei suoi poteri, il nuovo «sciamano [che] saprebbe guarire con un soffio, una pozione, una mistura, un solvente infallibile… Quanto basta per dissolvere l’insana credenza che ne potrebbe… scaturire: che una tale compressa ristabilirebbe l’equilibrio spirituale, restituirebbe la gioia di vivere, anzi, un’esultanza improvvisa e illimitata». Nessun farmaco, psicotropo o meno, è un filtro onnipotente che basta applicare a questa o quella malattia per vederne istantaneamente la fine.
Ci si perdonerà, speriamo, questa cattiva notizia: l’annunciata onnipotenza degli antidepressivi è il copri-miserie di una malattia inguaribile, come vedremo. Gli antidepressivi agiscono su tutto, per cui tutto diventa depressione. E tutto diventa curabile, senza che si sappia più bene che cosa sia guaribile. Man mano che si perde di vista il conflitto, la vita si trasforma in malattia identitaria cronica. Il che non è necessariamente un male, perché le nostre individualità sono perfettamente congegnate per assorbire questa «malattia». Ma è meglio sapere ciò che essa nasconde.
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Gli ISRS generano il timore di una estinzione chimica dei dilemmi che forgiano la soggettività. Con farmaci ormai applicabili con la stessa disinvoltura sia a patologie gravi sia a malesseri leggeri, e con l’ormai conclamata inutilità della diagnosi, l’incubo di una società composta da individui – ci si passi il termine – «farmacoumani», di individui in qualche modo affrancati dalle leggi abituali della finitezza, sarebbe a un passo dal divenire realtà.
[…]
Inoltre è altrettanto chiaro, in epidemiologia psichiatrica, almeno a partire dagli anni ’80, che le depressioni resistenti o recidive, le ricadute e la cronicità in genere sono la regola, una regola che delude ogni aspettativa di efficacia terapeutica. L’idea di guarigione entra in crisi.
[…]
La crisi dell’idea di guarigione, combinata con il declino della nozione di conflitto, significa solo che non si deve più pensare l’individualità contemporanea nell’orizzonte della guarigione: essa viene ormai accompagnata e trasformata nei modi più diversi, sul lungo periodo. Teniamo conto, inoltre, che la nostra società ha rinunciato anche a livello politico all’idea della soluzione miracolosa (di qui la crisi dell’antitesi destra/sinistra). Il conflitto non struttura più né l’unità della persona né l’unità del sociale, e non sarà certo più dal conflitto che potremo trarre i contrassegni adeguati per guidare la nostra azione.
È appunto il doppio livello della crisi dell’idea di guarigione in psichiatria e della crisi della nozione di conflitto nel sociale e nello psichico a disegnare la nostra nuova psicologia collettiva. Il soggetto non è moribondo, è solo cambiato.
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I tre quarti dei pazienti che hanno vissuto un episodio depressivo non ritroveranno più l’equilibrio psicologico precedente[…]
Il consenso sulle proporzioni è fuori discussione: la maggioranza dei pazienti non recupera l’equilibrio precedente, solo una ristretta minoranza conosce riprese parziali, mentre una larga maggioranza risulta recidiva o tendente alla cronicità.
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Per quanto si continui a insistere sulla necessità di associare alla cura con antidepressivi un intervento psicoterapeutico, si continua nondimeno a ripetere che quest’ultimo «non sembra diminuire i rischi di ricadute, tutt’al più sembra dare maggiori garanzie di osservanza della terapia da parte del paziente». La psico-terapia diventa un potenziatore della farmacoterapia. D’altronde le psicoterapie oggi più raccomandate sono di tipo comportamentale o cognitivo, e rimandano esclusivamente a un modello deficitario.
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Torna in questione la distinzione del DSM tra l’asse I, che enumera le patologie, e l’asse II, che enumera le personalità patologiche, visto che, a questo punto, la lunga durata del disturbo chiama in causa la personalità del paziente.
La quale sarà evidentemente coinvolta in una terapia di altrettanto lunga durata, conseguente a una prognosi solitamente poco incoraggiante. L’obiettivo terapeutico è infatti «il mantenimento della remissione, per impedire risorgenze sintomatologiche di un processo presumibilmente sempre in atto». E non esiste alcuna valutazione delle prescrizioni di lunga durata, dal momento che gli effetti a lungo termine non si conoscono, come ci viene ricordato in varie sedi. Visto che non si guarisce, come nel caso della follia, si resiste.
Le nuove molecole rappresentano il prodotto ideale per tale patologia, non tanto perché curano meglio, quanto perché sono più adatte dei vecchi antidepressivi a una malattia cronica.
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Sul versante del deficit, la tendenza alla cronicità induce gli psichiatri a sostituire la nozione di guarigione col tema della qualità della vita.
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L’antidepressivo rischia di uscire dalla categoria dei farmaci nella stessa misura in cui la depressione rischia di uscire dalla categoria delle malattie.
Gli antidepressivi, grosso modo, diminuiscono l’insicurezza identitaria della persona tendente ad avvertire la propria insufficienza cronica e, in seguito alla loro assunzione, stabilizzano i comportamenti – almeno quando la depressione non oppone resistenza. La terapia di lunga durata si sostituisce alla guarigione proprio perché gli antidepressivi sono anche farmaci antinevrotici: tengono a distanza i conflitti.
[…]
Abusi di antidepressivi, difficoltà di arrestare il trattamento e rischi di dipendenza: tutto sembra riconducibile a una modesta ricaduta terapeutica del progresso delle neuroscienze. Pichot lo ha sottolineato di recente: «Il lavoro svolto dalle neuroscienze è davvero impressionante, non si discute, ma finora ben poco produttivo in termini di applicazioni cliniche concrete per la psichiatria». E ha aggiunto: «Il che ci riporta alla definizione di malattia e ai suoi incerti confini. E al fatto che nessuna definizione è realmente soddisfacente».
Rilievi – non rari – che sottolineano la debolezza della teoria nella psichiatria contemporanea. Da un lato satellite delle neuroscienze, rispetto alle quali non gode più di alcuna autonomia, dall’altro modulo di risposta alle domande sociali, la psichiatria si vede ormai costretta a ripensare i propri codici di riferimento: come definire e concettualizzare la nozione di patologia mentale, oggi?
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Il malato non è che un soggetto sofferente, il quale può riconoscersi guarito solo integrando la malattia nella propria esperienza e nella propria storia.
L’idea di guarigione si caratterizza non per un ritorno al passato, a uno stato precedente la malattia, bensì per il fatto che il medico, lo psicoterapeuta o la molecola diventano inutili. Ora, questo momento è evidentemente molto difficile da individuare e presuppone una sorta di saggezza pratica, un compromesso al quale il soggetto partecipa con l’aiuto del suo terapeuta.
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[…] il ruolo del medico è quello di praticare una pedagogia della guarigione: «Tale pedagogia dovrebbe mirare a ottenere dal soggetto il riconoscimento del fatto che nessuna tecnica, nessuna istituzione, presenti o future, gli assicureranno l’assoluta reintegrazione delle sue facoltà di relazione con gli uomini e le cose». Canguilhem aggiunge che tale limitazione non è altro che la limitazione dell’essere umano, la sua legge di natura: «La salute dopo la guarigione non è la salute di prima. La lucida consapevolezza del fatto che guarire non è ritornare indietro aiuta il malato nella sua ricerca della minor rinuncia possibile, liberandolo dalla nostalgia di qualcosa che non è più». Non c’è guarigione senza un lavoro, un’elaborazione, un racconto, una finzione nella quale la persona si sente implicata, dal momento che c’è di mezzo un Io.
Una cosa sembra certa nel modello conflittuale: il benessere non è guarigione, perché guarire è essere capaci di soffrire, di sopportare la sofferenza.
Ed essere guariti, sotto questo profilo, non vuol dire affatto essere felici, vuol dire essere liberi, cioè recuperare un ascendente su noi stessi che sappia farci «decidere in favore di questo o quest’altro». Se accettiamo l’idea che la salute è la capacità di trascendere i nostri schemi normativi, allora dobbiamo saper distinguere la felicità dalla libertà e il benessere dalla guarigione. Se l’uomo in buona salute deve saper tollerare scosse d’ogni tipo e sentirsi sempre pronto a trascendere i propri schemi normativi, in presenza di disordine psichico non lo può fare perché è un soggetto conflittuale: il conflitto agisce da motore ma anche da freno.
[…]
La cura sembra ridursi a una «iniziazione ai misteri dell’inconscio». Il paziente resta dipendente nei confronti del suo terapeuta, esattamente come chi introietta pillole a non finire in una terapia di lunga durata. La cronicità non è certo monopolio esclusivo della psichiatria biologica. Roustang è molto duro al riguardo: «Se l’analisi non ha limiti di tempo né di spazio… l’analisi non durerà soltanto il tempo della vita, assorbirà la vita stessa, interamente».
[…]
La cura tipo si rivolge a chi è traumatizzato dal senso di precarietà e di emarginazione? Al salariato che fa uso, e forse abuso, di tranquillanti e antidepressivi (non vogliamo parlare di alcol, il grande tabù dei francesi) per tener testa a tensioni sempre più esasperate ed esasperanti, in attesa che, eventualmente, passi la tempesta? È proprio indispensabile che ognuno, per principio, affronti i suoi conflitti? Eppure i casi in cui il rimedio è peggiore del male non si contano.
Se il conflitto è il miele di cui si nutre la psicoanalisi, è chiaro invece che le vengono rivolte nuove richieste: e sono richieste che non hanno il volto nitido del conflitto, ma quello ben più indecifrabile del vuoto. […] E oggi esse si ripropongono sotto le apparenze, vaghe e inafferrabili, di un malessere che è il prodotto sia dei nuovi modelli socioeconomici sia della crescente precarizzazione della vita privata.
[…] pazienti dalla cui sofferenza gli analisti, dopo gli incontri preliminari, non riescono a estrapolare alcun indizio. «Si sa ben poco di “dove” fa male, di “come” e quando».
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Sul versante della psicoanalisi, il fatto che il paziente acquisisca una maggiore lucidità non viene considerato determinante in vista della guarigione; sul versante della psichiatria, il ridimensionamento dell’idea di conflitto rispetto all’idea di benessere conduce al fallimento della guarigione.
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L’individuo di oggi non è né malato né guarito. È solo inscritto nei molteplici programmi di mantenimento del suo status quo.
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La somministrazione di molecole ad ampio spettro d’efficacia risponde all’esigenza sempre più sentita di comportamenti standard: la difficoltà di «tener testa» può costare cara, oggi, a un individuo già alla deriva, per il quale i fallimenti professionali, familiari e affettivi finiscono per sommarsi in fretta e senza appello – e l’emarginazione, una volta sopravvenuta, diventa oggi irreversibile.
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Perché non chiamare «toniche» le molecole «antidepressive»? – un tonico non cura una malattia.
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La dipendenza è, al pari della depressione, una malattia e uno stato psichico al tempo stesso. Il suo spettro di interesse va ben al di là dei farmaci psicotropi o delle droghe illecite. Le innocenti tecniche di autoperfezionamento, popolari nel corso degli anni ’70, si sono convertite oggi nel sospetto nei confronti delle sette il cui marketing è incentrato sulla trasformazione della persona: all’orizzonte di tale liberazione, un’altra dipendenza, quella nei confronti di un guru. E il timore delle sette sta ormai alla psicoterapia attuale come il timore delle droghe sta al farmaco psicotropo – non è importante, da questo punto di vista, che si tratti di chimica o di organizzazione.
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Il nevrotico soffre, così, di un sovraccarico di interdetti, il suo Superio è troppo severo, e quella che dovrebbe essere una condizione della civiltà si trasforma in un fallimento della persona. In una cultura della performance e dell’azione, in cui le pannes dell’iniziativa individuale possono costare molto care (guai a non essere in ogni momento all’altezza), l’inibizione è una pura disfunzione, un’insufficienza.
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Esiste comunque un rapporto tra malinconia e depressione: sono entrambe il disagio di una coscienza di sé smisuratamente affilata, la coscienza di non essere “altri che” se stessi. Se la malinconia era la cifra dell’uomo eccezionale, la depressione è l’epifania di un’eccezione democratizzata.
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Quando Nietzsche, nel 1887, annunciava l’avvento dell’individuo sovrano, «riscattato dalla eticità dei costumi», vedeva in lui un essere forte: «La superba cognizione dello straordinario privilegio della responsabilità, la consapevolezza di questa rara libertà, di questa potenza sopra se stesso e sul destino è discesa in lui sino al suo infimo fondo ed è divenuta istinto… Ma non v’è dubbio, questo uomo sovrano lo chiama la sua coscienza».
L’individuo che, riscattato dalla morale, si forgia da sé e tende verso il superumano (agire sulla propria natura, oltrepassarsi, essere più che sé) è la realtà di oggi, ma è un individuo che, invece di possedere la forza dei demiurghi, è intimamente fragile, manca di essere, è stremato dal suo stesso esser sovrano e se ne lamenta. E non incarna né la gaia scienza né il riso nietzscheani. La depressione è così la vecchia malinconia aggiornata dall’eguaglianza, la malattia per eccellenza dell’uomo democratico, l’inesorabile contropartita dell’uomo che si pretende sovrano: non quello che ha agito male, ma quello che non può agire affatto. La depressione non è, come l’inibizione, pensabile nei termini del diritto, bensì in quelli della capacità.
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La follia era la degenerazione di un soggetto di ragione, la nevrosi freudiana era la degenerazione di un soggetto conflittuale, la depressione è la degenerazione di un individuo che è solo se stesso e, di conseguenza, mai se stesso, come se corresse perpetuamente dietro alla propria ombra, ombra da cui è dipendente. Se la depressione è la patologia di una coscienza che è solo se stessa, la dipendenza è la patologia di una coscienza che non è mai sufficientemente se stessa, mai sufficientemente colma di identità, mai sufficientemente attiva – troppo indecisa, troppo esplosiva.
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Si istituisce così un doppio movimento. Prima si assiste a un’infatuazione tecnologica per il continuo rimodellamento di sé, una moda cyberumana, come si esprime il catalogo dell’esposizione «Post-Human» tenuta a Losanna nel 1992: «Un numero sempre maggiore di persone è convinto che non vi sia più la minima convenienza a tentare di ‘guarire’ un disturbo della personalità. Al contrario, sarebbe molto più idoneo tentare di modificarla, invece di curarla». Poi, complementarmente, si assiste a un crampo morale, come accade col sovrainvestimento della legge penale, cui spetta il compito di porre tassativamente dei «limiti» che il soggetto non deve oltrepassare se vuole rimanere soggetto. Qual è il «limite» tra un ritocco di chirurgia estetica e la trasformazione in androide di un Michael Jackson (ndr la disinformazione sul personaggio era diffusissima durante il periodo del libro – e ha effetto ancora oggi, in realtà), o tra un’abile gestione dei propri umori grazie ai farmaci psicotropi e la trasformazione in «robot chimici», o tra le strategie di seduzione «troppo» spinte e l’abuso sessuale […] Sono proprio le frontiere della persona e quelle tra le persone a determinare un tale stato di allarme da non sapere più chi è chi. L’incesto, ad esempio, non è, come la dipendenza, «un cortocircuito con se stessi»?
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Questi metodi non sono certo la panacea; il costo umano che a volte essi comportano per i più deboli, in termini di progetto di reinserimento e di salario, può risultare insostenibile. Lo fa notare un recente rapporto sulla salute mentale delle fasce di popolazione più esposte alla precarizzazione: «Lo sforzo richiesto alle persone bisognose di inserimento è in genere ben superiore a quello richiesto alle persone già socialmente inserite».
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[…] sorge il problema dell’«istituzione del sé», nozione che, a nostro parere, chiarisce come l’individualismo non possa ridursi alla privatizzazione dell’esistenza, e come invece presupponga «un mondo come mondo pubblico e comune».
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Il fatto che le strutture statali, professionali, scolastiche e private convergano tutte in direzione dell’iniziativa individuale, è un fatto del tutto nuovo che, unito a un’inedita libertà dei costumi e a una moltiplicazione dei punti di riferimento, conferisce allo psichico una iscrizione sociale, e dunque personale, altrettanto inedita. La risposta ai nuovi problemi della persona prende la forma di interventi di sostegno agli individui in difficoltà, un sostegno che può coprire l’arco di un’intera vita ed esplicarsi in molteplici direzioni, farmacologiche, psicoterapeutiche o sociopolitiche. I prodotti, il personale o le organizzazioni ne sono il supporto. Questi operatori, non importa se di provenienza pubblica o privata, si rifanno a un’identica regola: produrre un’individualità capace di agire da sola e di evolversi in forza delle proprie motivazioni interne. È una regola che può fungere sia come strumento di dominio sia come mezzo per promuovere il reinserimento del paziente e il coinvolgimento delle strutture terapeutiche. Le strategie di confronto o scontro e il giudizio dei diversi operatori si disegnano all’interno di questo immaginario, e non nell’immaginario di una «lotta finale» o di una assicurazione sulla vita. Entrata a far parte delle nostre abitudini, del nostro costume, di un vocabolario di uso corrente – elaborare progetti, concertare programmi, suscitare motivazioni, ecc. –, la regola suddetta fa ormai corpo con noi. Si è istituita. Queste nuove forme comuni di produzione dell’individualità sono le istituzioni del sé.
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[La fase] che stiamo vivendo oggi, [è] quella dei protocolli d’iniziativa individuale e della conformazione alle norme della performance: dove l’iniziativa individuale appare, all’individuo, una condizione indispensabile per continuare a vivere nel sociale.
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Alla fine degli anni ’60, «emancipazione» è la parola d’ordine che assembla l’intero continente giovanile: tutto è possibile. Il movimento è antistituzionale: la famiglia è una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro (e il suo rovescio, il consumismo) un’alienazione, e la legge (borghese, s’intende) uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve liberare («vietato vietare»). Una libertà di costumi finora sconosciuta si coniuga a un progresso delle condizioni materiali, e nuove prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso del decennio. Se la follia, nel comune sentire dei primi anni ’70, appare come il simbolo dell’oppressione moderna e non più come una malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è possibile: il pazzo non è malato, è solo diverso, e soffre proprio per la mancata accettazione della sua diversità. Trent’anni dopo, rischia di affermarsi una controparola d’ordine: niente è possibile. Si ha la sensazione che il presente sia come schiacciato, soffocato. Ed è una sensazione confermata dal peggioramento delle condizioni materiali e da quell’estraniazione di una parte della popolazione che normalmente si chiama esclusione.
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È dunque inutile lamentarsi per un ritorno dell’interdetto o continuare a ripetere che è indispensabile porre dei limiti a soggetti che in realtà non ne riconoscono più. Tanto, indietro non si torna. Quello che è veramente indispensabile è capire che quel qualcosa di sconosciuto che è dentro di noi tende a trasformarsi, e che i costi oscillano con i guadagni.
Questa storia è, in definitiva, molto semplice. L’emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dello spirito d’obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato a quelli della responsabilità e dell’azione. È così che la fatica depressiva ha preso il sopravvento sull’angoscia nevrotica.
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Senza genitori, senza nome, l’eroe cronenberghiano tenta di costruirsi… un’essenza in virtù del solo sortilegio tecnologico.
Serge Grünberg, David Cronenberg, 1992.
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La depressione minaccia l’individuo simile a se stesso come un tempo il senso di colpa insidiava l’uomo lacerato dal conflitto o, ancor prima, il peccato incalzava l’anima rivolta a Dio. Più che un infortunio affettivo, la depressione è oggi un modo di vivere. (ndr «Plus qu’une misère affective, elle est une façon de vivre.»)
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In tale oscillazione rientrano anche alcuni crucci della nostra psicologia collettiva. Mentalmente, ad esempio, siamo ancora troppo ancorati all’idea di soggetto conflittuale. Eppure non ci mancano certo gli strumenti per ripensare i nuovi problemi della persona e fare chiarezza in noi stessi, reinventando magari il nostro futuro, invece di rimpiangere il buon tempo antico, in cui le frontiere erano nette e il progresso assicurato.
[…] all’interno della persona esiste, oggi come ieri, un lembo d’inconoscibile, un lembo che magari può riplasmarsi ma non può sparire del tutto – perché fa parte, costitutivamente, dell’uomo. La lezione della depressione è questa: ridurre del tutto la distanza tra sé e sé è impossibile, in un’esperienza antropologica nella quale l’uomo è l’unico proprietario di se stesso e l’unica fonte della propria azione.
Vedi anche Umberto Galimberti.